WANDA POLTAWSKA

Una testimonianza cristiana dal lager di Ravensbruck

Federico Reginato
 

Wanda Poltawska ha un volto sereno e disteso. Sorride e, se la si guarda negli occhi, non si riesce ad intravedere nemmeno in minima parte quello che quegli occhi hanno visto.
La incontriamo il 3 Febbraio all’istituto Manfredi-Tanari di Bologna.E’ arrivata da Budrio, invitata dall’istituto per raccontare la sua storia e noi siamo andati ad ascoltarla.
Wanda si siede e comincia a parlarci dei suoi quattro anni passati nel lager di Ravensbruck, uno dei principali lager di detenzione femminile. Ci racconta di quando, militante nella resistenza polacca, fu arrestata dalla Gestapo. Ricorda la sua formazione giovanile nella associazione degli scout dove, dice “Hanno imparato il coraggio, anche civile, nella vita normale”.
Ci parla dei fili dell’alta tensione e delle torri di guardia che limitavano il campo, delle divise a righe, del dolore onnipresente al suo interno, delle disumanità degli aguzzini, di come si sia salvata credendola morta, e come il campo di concentramento sia stato per lei una scuola di vita, perché “nelle situazione estreme si deve giudicare” .
Ci parla, soffermandosi a lungo, della sua fede, di Dio e dell’amicizia con colui che, in seguito, è diventato papa con il nome di Giovanni Paolo II:  Karol Wojtyla.
E’ evidente che, a differenza di altri reduci dei campi di concentramento, Wanda non ha perso la sua fede, che invece le ha dato la forza e il vigore per continuare.
Attraverso la storia di amicizia e collaborazione con Wojtyla, si capisce come per la Poltawska la fede abbia dato una risposta a domande importanti, come quella posta da uno studente presente in sala, che le chiedeva come avesse fatto a non perdere la fede in Dio. In modo molto netto, semplice e chiaro ha risposto: a non esserci nel Lager non era Dio, ma l’uomo.
Wanda tuttavia non è uscita indenne da quell’esperienza. Infatti, la sua fiducia negli esseri umani è stata messa in discussione dall’esperienza del lager. “Credevo che l’uomo fosse buono – racconta – ho capito invece che la grandezza dell’uomo sta nel fatto che è capace di diventare un gigante dello spirito oppure di degradarsi. L’uomo fa le cose per propria responsabilità”.
Vengono poste altre domande e Wanda continua a raccontare.
Racconta dei numeri incisi sulla pelle che avevano preso il posto dei loro nomi, delle angherie e delle violenze fisiche e psicologiche messe in atto dalle SS, per attuare una lenta e dolorosa disumanizzazione delle internate. Ci parla di come lei ed altre compagne siano state ridotte a cavie di laboratorio.
La voce è ferma, ma è l’animo che trema quando ricorda le ragazze morte dopo i crudeli esperimenti a cui erano sottoposte, delle gravidanze che portavano alla nascita di bambini che venivano subito bruciati vivi.
Inutile la resistenza alla guardia: “non potete trattarci così, come dei conigli!”. Da quel giorno, le ragazze nel campo furono chiamate “conigliette”, ridotte in condizioni pietose, senza neppure la forza per potersi ribellare a tali aberrazioni.
“Ma alla fine – conclude – abbiamo vinto noi. Sono rimasta libera dentro di me”.
Come ad Auschwitz Padre Kolbe, così a Ravensbruk due donne si sostituiscono a due compagne che avrebbero dovuto presentarsi all’appello che avrebbe decretato la loro eliminazione.
Perché lo hanno fatto, se non per questa libertà irriducibile ?
Credo che se non vogliamo ridurre l’esercizio della memoria alle celebrazioni, dobbiamo aiutarci a ritrovare nelle pieghe della storia quegli eventi e quegli esempi in cui risulti evidente cosa sta all’origine della responsabilità che l’uomo può e deve esercitare nei confronti del proprio presente.